Storia del Palazzo di Giustizia

Le vicende delle monache

L'attuale Palazzo di Giustizia si innalza sull'area che era stata occupata, in gran parte, dall'antico convento di Santa Prassede, "allato di quegli giganteschi faggi che colà vedete verdeggiare nella strada - lo stradone di porta Tosa - alla sinistra mano, tenendosi nel mezzo corrente rigagnolo", come descrive il Torre nel suo "Ritratto di Milano".

Il monastero di S. Prassede, volgarmente detto anche delle Cappuccine di porta Tosa, deve la sua costruzione a S. Carlo Borromeo. Si narra, infatti, nelle storie dei cronisti sei-settecenteschi - e in particolare nella vita di S. Carlo, opera di Gio. Pietro Giussano - che, essendo Carlo Borromeo in gravi "afflittioni" per il comportamento non sempre ortodosso degli ecclesiastici e per la lotta sorda che gli aveva dichiarato il governatore spagnolo, Dio volle sollevarlo "con una consolatione spirituale molto grande, che ricevé nel fondare un monastero di vergini che si dedicarono al servitio di Dio in stato di una essemplarissima vita".

Inizialmente erano, queste monache, un gruppo di giovani radunatesi nella casa donata da madonna Marta Piantanida - secondo il Giussano - o da madonna Sidonia Robecca - secondo il Torre - con l'assistenza spirituale dei Chierici regolari di S. Paolo. "Ivi si unirono a condurre una vita di austera mortificazione per facilitarsi l'acquisto dell'eterna beatitudine", abbracciando la vita religiosa secondo le regole cappuccine e riscuotendo ammirazione e venerazione da parte dei cittadini per il loro comportamento irreprensibile. Qui vissero in preghiera fino al 1575, anno in cui ricorsero all'arcivescovo per essere da lui consacrate secondo la regola di S. Chiara e continuare in clausura la loro vita dedicata a Dio. Carlo Borromeo accolse favorevolmente la richiesta, tanto più che era sua vivo desiderio avere in Milano - come già in altre città - un monastero di tale ordine di religione. Per questo si interessò personalmente per far predisporre i piani dell'edificio, affidandoli - a quanto risulta - al suo architetto di fiducia Pellegrino Pellegrini, e per nominare una commissione di nobili milanesi che ne seguissero la fabbrica, costituita da un monastero e da una chiesa, secondo la forma da lui stabilita nel libro intitolato "Intruttione della fabrica". Il convento avrebbe così dovuto essere "ampio e compito di tutte le sue officine, con giardini, chiostri, e cortili molto bene intesi, e ordinati; con una cinta di muro, che serra tutto il Monastero d'ogni intorno, e gli leva ogni prospetto, e soggettione delle case vicine". Carlo, poi, spinse la sua generosità fino a concorrere personalmente, non soltanto alle spese delle fondamenta della fabbrica (per la cui edificazione era anche stato acquistato un luogo confinante) ma anche in seguito, finché visse. La costruzione, secondo i cronisti, venne eseguita nel giro di pochi mesi e riuscì in modo perfetto, risultando "tra i più agevoli della città", pur mantenendo "l'humiltà e povertà dell'istituto". Poiché riteneva di notevole importanza la fondazione di questa istituzione, Carlo volle dare fasto e autorevolezza alla sua inaugurazione, anche per interessare la popolazione alla devozione verso il nuovo convento e indurla a generose oblazioni ed elemosine alle monache. La loro regola, infatti, prescriveva di procurarsi in questo modo il cibo quotidiano, non potendo esse avere beni propri, né personali, né della comunità. Così il 26 aprile 1579, domenica in Albis, alla presenza, nella chiesa metropolitana, del clero secolare e regolare e di una grande folla di cittadini, dopo aver celebrato la messa, l'arcivescovo Carlo Borromeo, vestito l'abito pontificale, consegnò l'abito monacale delle Cappuccine a diciotto vergini, pose sulle spalle di ognuna di esse una grande croce e sul loro capo una corona di spine. Le vergini, accompagnate ciascuna da una nobildonna milanese, si avviarono in solenne processione attraverso la città, per chiudersi in perpetua clausura, sotto il governo di quattro suore fatte venire da Perugia, nella parte originaria - la nuova non era ancora stata terminata - del monastero, che Carlo volle dedicato a S. Prassede, titolo della sua sede cardinalizia a Roma. Ad esse in seguito si aggregarono altre suore, sino ad arrivare a cinquanta. Il numero delle Cappuccine, infatti, andava aumentando di giorno in giorno, tanto che sul finire del Cinquecento si potevano contare a Milano ben cinquemilatrecento "donne che tengono ed osservano vita religiosa, servendo a Dio in santa castità et virginità, in digiuni et orationi".

Fu poi l'anno dopo, nel 1580, che l'11 giugno lo stesso arcivescovo ricevette la loro professione.

Le monache, con la clausura, avevano abbracciato la regola di S. Chiara, che le obbligava ad una disciplina stretta. Esse dovevano sottostare a norme precise, come possiamo dedurre da un documento del 1642, conservato all'Archivio di Stato. Oltre a complesse preghiere quotidiane e a un duro lavoro, tra l'altro, erano tenute al digiuno giornaliero, con l'uso di cibi quaresimali per tutto l'anno, a dormire su tavole di legno "con una sola schiavina sotto e doi megliore per coprirse", a levarsi a mezzanotte per il mattutino, "a castigarsi con discipline molto aspre", a non vedere né parlare con nessun "secolare" se non con i propri parenti stretti, a vestirsi di "bigio" con un ruvido panno posto sul corpo nudo; e ancora ad andare scalze come i Cappuccini, ad alzarsi alle quattro e mezzo d'estate e alle sette d'inverno, a prendere il cibo in comune, recandovisi in processione e cantando le litanie mariane, a consumare come pasto serale tre once di pane e alcune frutta - quando c'erano - e tre volte l'anno pane e minestra.

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