La regola delle monache di S. Prassede
La regola del silenzio assoluto doveva essere osservata, oltre che in momenti particolari della giornata, nei giorni
dell'avvento, durante il carnevale e in quaresima. Soltanto con licenza del medico, davanti al quale si presentavano con
il viso coperto, si poteva somministrare carne alle inferme. Le colpe e i difetti personali erano denunciati pubblicamente
in refettorio, ogni mattina, come mortificazione.
Fu proprio nel monastero di S. Prassede - racconta il Giussano - che venne a chiudersi la contessa Corona, figlia di Gio.
Battista Borromeo, e stretta parente dell'arcivescovo, la quale "sprezzando tutte le grandezze e delitie di questo falso
mondo", avendo soltanto una sorella - Ippolita, moglie del conte Alberico Belgoioiso - "cinta di una grossa fune,
coll'aspro bigio sulle delicate membra", entrò nel monastero con il nome di suor Elena, "a fare dura penitenza". Assalita
poi da una penosa malattia, ella sopportò con pazienza e rassegnazione la dolorosa infermità, che nel giro di tre anni la
condusse ad una morte aureolata dal martirio, che - conclude il cronista - la portò senz'altro "a godere di eterni riposi
del Paradiso".
La vita delle monache di S. Prassede dovette scorrere serena fino all'ultimo ventennio del Settecento, quando anch'esse
furono costrette a sottostare alle norme giurisdizionali di Giuseppe II, in base alle quali il monastero nel 1782 venne
soppresso. Ma soltanto durante la Repubblica Cisalpina, il 17 marzo 1799, in un documento dell'Archivio storico civico,
venne confermato l'atto di soppressione e in data 19 marzo fu stilato l'inventario di paramenti e suppellettili - di poco
valore e logorati dall'uso - rilevati dalla Comunità.
Nel frattempo, il 27 febbraio 1801, le ex monache di S. Prassede, erano state obbligate a lasciar libero il proprio
convento e a trasferirsi in locali siti in S. Barnaba, chiesero di venir rimborsate, almeno in parte, delle spese
sostenute per il cambiamento di abitazione. Il ministro dell'Interno della Repubblica Cisalpina, con una sua lettera, pur
facendo presente che era stata la "nazione stessa" a fornire la nuova sistemazione, diede disposizione di pagare loro
sollecitamente - "attesa la specialità del caso non allegabile ad altre" - le pensioni "mensuali" arretrate, dietro
dichiarazione "che con ciò s'intendono tacitate da qualunque pretesa per il suindicato oggetto". La direzione centrale dei
beni nazionali provvedeva poi all'attuazione del decreto ministeriale, attraverso il proprio Agente dipartimentale d'Olona.
Due documenti del 13 giugno e del 15 luglio 1801 a noi pervenuti trattano, invece, della gestione della chiesa annessa al
monastero di S. Prassede. Secondo gli ordini del ministero dell'Interno si stabiliva di subordinare a quella soppressa di
S. Filippo Neri "destinata ora ad altri usi" la suddetta chiesa, "relativamente però alle pure funzioni ed atti
parrocchiali da esercitarsi dal parroco o da qualunque altro sacerdote che verrà prescelto per l'esercizio di siffatte
funzioni, esclusa qualunque ingerenza negli oggetti amministrativi". Inoltre si stabiliva di nominare due "fabbricieri" -
sacerdote Giuseppe Cattaneo e Francesco Mussio - che avrebbero dovuto assumere l'amministrazione della chiesa per renderne
conto all'Agenzia dipartimentale d'Olona. Quest'ultima decideva, poi, che i redditi di S. Prassede fossero devoluti a
S. Pietro in Gessate.