Il giudizio critico sulla architettura del palazzo
Per concludere, si riporta il giudizio che Maurizio Grandi e Attilio Pracchi hanno espresso nel volume "Milano. Guida
all'architettura moderna" (1980), sulla costruzione del palazzo e sul suo architetto.
«Composizione assiale indifferente alle esigenze distributive, scalinate monumentali che conducono ad altri inutilmente
grandiosi, pareti nude alle quali tuttavia il rivestimento marmoreo conserva tutta la consistenza muraria, pilastri e
piattebande anziché colonne e archi (di qui la nota polemica con Ojetti) caratterizzavano il nuovo Palazzo di Giustizia,
per il quale, dopo il fallimento del concorso, il podestà incaricava direttamente Piacentini nel 1930 quando questi
"legato del Ministero dell'Educazione Nazionale, doveva pronunciarsi sul Piano Regolatore della città". Piacentini,
prendendo atto del confronto con la nuova architettura europea, obbligato dall'avanguardia razionalista e dalle
irreversibili novità da essa introdotte, ne fraintendeva la portata - in questo facilitato dalla debolezza teorica dei
razionalisti - circoscrivendola a una serie di innovazioni formali, che in parte confutava, assumendo in definitiva i
soli aspetti dell'abolizione degli ordini e della semplificazione decorativa: elementi sufficienti a conferire al Palazzo
di Giustizia l'aggiornata monumentalità in grado di appagare le esigenze celebrative del regime. L'esigenza di tale
"arte moderna nazionale" era teorizzata da Piacentini prima ancora che l'opera di mediazione condotta in occasione
dell'esposizione del MIAR consolidasse definitivamente il suo ruolo di organizzatore e gestore egemone della cultura
architettonica italiana: "Aderire perfettamente alla vita d'oggi, materiale e spirituale, pur rispettando le condizioni di
ambiente. Ammettere quanto vi ha di universale, di corrispondente alla civiltà contemporanea, nei movimenti artistici
europei, innestandovi le nostre peculiari caratteristiche e tenendo presenti le nostre speciali esigenze di clima. Ecco
il nostro compito. Io vedo la nostra architettura contemporanea inquadrata in una grande compostezza e in una perfetta
misura. Accetterà le proporzioni nuove consentite dai nuovi materiali, ma sempre subordinandole alla divina armonia che
è l'essenza di tutte le nostre arti e del nostro spirito".
Attraverso l'inoppugnabile argomento dell'arte nazionale, Piacentini delimitava i termini dai quali la polemica
sull'architettura non avrebbe sostanzialmente derogato, inibendone con tempestività lo sviluppo su una base teorica più
fondata e consistente; inoltre, in toni non diversi da quelli del Gruppo 7, riusciva a fare ritenere opportuno il
superamento del novecentismo maturato nel decennio precedente, in quanto rispecchiante "l'indole e le tradizioni
regionali": sia il revival cinquecentesco e barocco della scuola romana - di cui egli stesso si era avvalso nei primi
importanti incarichi ufficiali - sia il neoclassicismo dei milanesi».
Dal palazzo del Capitano di Giustizia in piazza Beccaria al Palazzo di Giustizia in corso di porta Vittoria. Un simbolo a
garanzia di civiltà e di progresso, un'immagine di speranza nella giustizia e nel diritto per Milano e i suoi cittadini.